1800
1800 … e la danza si fa donna
– Che è un secolo importantissimo per la danza classica?
Sì, e sotto molti aspetti, segna il suo completamento, la sua evoluzione finale.
– In che senso?
La danza classica arriva nel XIX secolo ai suoi massimi livelli artistici. Livelli sicuramente migliorabili, perfezionabili in seguito sotto l’aspetto atletico e tecnico come avviene nello sport, ma non sotto l’aspetto artistico. In tutto il mondo a tutt’oggi dire danza classica significa dire La Sylphide che è del 1832, Giselle del 1841, Don Chisciotte del 1869, Coppelia del 1870, La bella addormentata del 1890, Lo schiaccianoci del 1892 e Il lago dei cigni del 1895. Tutti balletti vivi, presenti nei repertori dei principali teatri mondiali e in dvd nei negozi specializzati. La danza classica è e rimarrà questa. Ti faccio un paragone: prendi gli strumenti musicali, il violino, il pianoforte, il clarinetto, la chitarra, la fisarmonica… Pensa che evoluzione c’è stata nel corso dei millenni. E giunti a questo punto ho dei seri dubbi che qualcuno inventi strumenti nuovi che entrino nella storia della musica come ci sono entrati il violino o il pianoforte. E così è la danza accademica. Improbabile che se ne inventi di nuova.
– Intendi dire che la danza classica ha raggiunto i suoi massimi livelli nell’Ottocento?
Assolutamente no. Può essere che tra cento anni un coreografo di uno stato ora insignificante dal punto di vista ballettistico crei il più bel Lago dei cigni di tutti i tempi con una coreografia classica e sulla celebre partitura ciaikovskiana. Per quanto stravolto nell’ambientazione e nella drammaturgia, i passi non potranno che essere quelli accademici, che sono quelli e basta, seppur evolutisi negli anni da un punto di vista tecnico e atletico.
– Perché nell’Ottocento c’è questa impennata nella danza?
Andiamo con ordine. L’Ottocento non è il momento d’oro soltanto della danza. Sicuramente lo è di molti altri settori, artistici e non. Come adesso, caso opposto, sono in tanti a dirlo, è un momento nero per molti ambiti. Nell’Ottocento hanno una fortissima espansione la chimica, la meccanica, la letteratura, la musica, le scienze biologiche. E tutto contribuisce. Le eccelse composizioni musicali dell’Ottocento (pensiamo a Beethoven, Schumann, Berlioz) tengono alto il livello globale e così autori secondari come Adolphe Adam, Ludwig Minkus o Léo Delibes specializzati su musiche per il balletto, sfornano anche loro musiche di qualità. Dunque non è solo il genio della composizione ballettistica Piotr Iliic Ciaikovski a eccellere. Per la cronaca questo contributo della buona musica alla danza continuerà (pensiamo a Strawinsky) nella prima metà del Novecento. Ma non è solo una questione artistica. Ci sono dettagli tecnologici che sono importantissimi. Pensa, per fare un esempio, all’abbigliamento tecnico dei ciclisti di oggi che rende sopportabilissimi freddo e vento. Qui il dettaglio tecnico, che è poi il punto fondamentale dell’evoluzione della danza classica nell’Ottocento, è la scarpetta da punta.
– Chi la inventa e chi la usa per prima?
Non è facile dirlo. Al di là di chi veramente l’abbia usata per prima, è Maria Taglioni il 12 marzo 1832 all’Opéra di Parigi alla prima della Sylphide ad avvallarne l’uso come lo intendiamo noi. Senti cosa scrive al riguardo Alberto Testa nel suo trattato Discorso sulla danza e sul balletto. «La Taglioni – scrive Testa – trovò nella punta la sua ragione e sublimazione. Altre, forse più brave di lei tecnicamente, la impiegarono con risultati di arditezza virtuosistica, ma pare che con la Taglioni divenisse un mezzo di espressione tramite il quale tutto il personaggio si delineava e modellava. Gli aplombs straordinari di cui parlano i critici e le cronache dell’epoca sono veramente tante punteggiature sospese nello spazio del disegno della coreografia, tante sospensioni evanescenti di una creatura fragile… Quindi quella fragile aderenza al terreno sulla sola punta di un piede in una arabesque dalla quale si potrebbero tendere fili infiniti, altrettanto evanescenti, era l’esatta misura del personaggio, di un sentimento, di una situazione».
– Cosa sono gli aplombs e cos’è l’arabesque?
Gli aplombs sono situazioni di equilibrio in cui il centro della testa, il centro del bacino e il piede su cui poggia il peso del corpo formano una linea perfetta perpendicolare a terra. Come diceva J. Etienne Despréaux nel suo trattato Mes passe-temps “si può stare in equilibrio senza essere in aplomb, ma non esiste aplomb senza equilibrio”.
– E l’arabesque?
L’arabesque è una delle più celebri pose della danza ed è ispirata dai disegni ornamentali (forse di origine moresca) del Rinascimento. Il corpo poggia su una gamba mentre l’altra è tesa indietro e in alto e forma con quella d’appoggio un angolo di oltre 90 gradi. Anche le braccia sono in estensione… Dai un’occhiata al disegno, la conosci benissimo l’arabesque.
– Chi ha inventato questi passi e chi gli ha dato questi nomi?
I passi e le posizioni sono nati e sono stati codificati nel corso dei secoli. Per quanto riguarda i nomi, arabesque (in italiano arabesco) prende ad esempio il nome da quei disegni svolazzanti e a “intrecci” che venivano usati a scopo decorativo dagli arabi i cui precetti religiosi vietavano loro di raffigurare uomini e animali.
– Il termine in uso a livello internazionale è arabesque, in francese, non arabesco in italiano. Non capisco una cosa. Mi hai parlato, se non sbaglio, di grandi teorici e maestri di danza italiani presso le corti europee e di quanto gli italiani fossero bravi nell’arte di stampare libri, compresi quelli di danza. Dunque la lingua del balletto non doveva essere l’italiano?
No. La leadership italiana e tedesca nello stampare libri va dalla fine del 1400 alla metà del 1500. Poi in tutti gli stati nascono tipografie e dunque tutti sono in grado di stampare libri. Per quanto riguarda i maestri di danza italiani, sì certo, sono loro i più importanti a livello europeo nell’allestire le feste di corte e nello scrivere trattati, ma come per la leadership nella stampa, è un fenomeno che riguarda il 1400 e il1500. Poi, quando in Francia esplode la mania per la danza, al punto che re Luigi XIII e re Luigi XIV prendono parte attivamente a numerosi balletti e il cardinale Richelieu (come ti ho già detto) arriva a scrivere il soggetto di un balletto, inevitabilmente la lingua ufficiale della danza diventa il francese. I termini della trattatista italiana vengono così tradotti in francese e quando c’è bisogno di coniare nomi nuovi termini automaticamente si ricorre a questa lingua. Un esempio per tutti riferibile più o meno al 1660: quando Pierre Beauchamps (che oltretutto è francese), considerato da molti il codificatore delle cinque posizioni, arriva – grazie alla sua forza muscolare – a saltare sul posto girando più volte su se stesso, non si parlerà più di tour ma di tour en l’air. Al di là delle necessità, ci si mettono pure la moda e lo snobismo: il fiorentinissimo Giovanni Battista Lulli, una volta trasferitosi a Parigi, diventa Jean Baptiste Lully. Penso, caro Paperino, che non puoi più avere dubbi su perché la danza accademica parli francese.
– Dicevi prima che l’evoluzione tecnica della scarpetta da punta è fondamentale per l’esplosione delle danza nel 1800. In cosa consiste questa evoluzione?
A inventare la scarpetta di raso a suola piatta è, verso il 1730, Marie Camargo che è anche la prima a usare una gonna più corta per danzare con maggiore libertà. Verso l’inizio del 1800 diverse ballerine (l’italiana Amalia Brugnoli, la russa Avdotia Istomina e la francese Geneviève Gosselin) cominciano a rinforzare questo tipo di scarpetta imbottendola con della carta o del cotone. L’idea geniale ce l’ha però il calzolaio di MarieTaglioni, un certo Nicolini, che le rinforza la scarpa con della canapa arrotolata trattata con speciali colle. E la Taglioni “inventa” così le punte. Poi, nel Novecento, un’ulteriore evoluzione: per rinforzare la scapetta verrrà adoperato il gesso.
– Perché all’Ottocento hai messo il sottotitolo “e la danza si fa donna”? Già nel Settecento c’erano le ballerine dive…
Giustissimo. Prima ti parlavo della Camargo (1710-1770) imitata nel vestire dalle signore mentre i cuochi inventavano per lei nuovi piatti. C’erano inoltre Marie Sallè, Barbara Campanini, Marie-Thèrèse Subligny… sì tutte grandi stelle, ma è nell’Ottocento che la ballettomania raggiunge il suo apice con la Taglioni, Fanny Elssler, Carlotta Grisi, Fanny Cerrito e altre ancora innalzate a superstar e oggetti di un culto che ha dell’incredibile e che sfocia spesso nel feticismo
– Ovvero?
Pensa, Paperino, che nel 1842, alla fine della tournée russa della Taglioni, alcuni suoi ammiratori comprano all’asta, per trecento rubli, un paio di sue scarpette, le fanno cucinare da uno chef e se le mangiano condite con una salsa speciale. A Filadelfia invece i fans della Elssler staccano i cavalli dalla carrozza che deve accompagnarla in albergo e sono loro a trascinarla per le vie della città. La stessa cosa avviene a Vienna, nel 1839, alla Taglioni. Alla luce di questi eccessi diventa quasi normale amministrazione per gli ammiratori bere champagne nella scarpetta della loro ballerina prediletta anziché nella coppa canonica.
– Perché questi eccessi?
Fa parte della vita. È il senso stesso dello spettacolo. Negli anni Sessanta del ‘900 accade con i Beatles e con i Rolling Stones, e all’uscita di Titanic di James Cameron nel 1997 nasce nelle ragazzine una “dicapriomania”… Sono fenomenologie a doppio senso: da una parte l’evento artistico, dall’altra una risposta collettiva con tutte quelle implicazioni che sociologi e psicologi hanno analizzato nei dettagli. Comunque, se il confronto tra ballettomania ottocentesca e beatlesmania regge, è la dimostrazione che il balletto diventa nell’Ottocento un fenomeno di una certa rilevanza collettiva. Una rilevanza che tuttora si fa sentire. Guarda queste lamette tedesche della prima metà del Novecento che hanno il nome del mago del Lago dei cigni e guarda Barbie in versione Lago dei cigni. Come puoi notare dal costume di Barbie, il balletto per eccellenza nella mente della gente è quello ottocentesco.
– La scarpetta da punta è un importante dettaglio tecnico. Ce ne sono altri?
E come! Pensa, all’elettricità, a come ha cambiato gli allestimenti teatrali soprattutto nell’ultimo decennio dell’800. Ti racconto un tristissimo fatto di cronaca. È il dicembre del 1862 e in un teatro parigino Emma Livry sta provando La Muette de Portici (La muta di Portici). Emma Livry è una ballerina ventenne, bravissima, la pupilla di Marie Taglioni. Al punto che la Taglioni due anni prima ha commissionato a Jacques Offenbach, appositamente per la Livry, il balletto Le Papillon andato in scena con successo all’Opéra. A un certo punto della prova il tutù della Livry, sfiorando la fiamma di una delle lampade a gas che illuminano la scena, prende fuoco. Invano due ballerini cercano di aiutarla. Le ustioni sono gravissime. Non muore subito. Muore dopo otto mesi di sofferenze il 26 luglio 1863. Una vera e propria “morte bianca” come quelle di oggi nelle fabbriche e nei cantieri edili. Capisci Paperino l’enorme importanza della lampadina a incandescenza inventata nel 1878 da Thomas Edison?
– Com’era l’illuminazione prima dell’impiego dell’elettricità?
Fino al 700 il palcoscenico era illuminato da candele la cui luce, per amplificare l’effetto illuminante, era riflessa da specchi concavi. Poi, nell’800, vennero sostituite da lampade a gas. Piazzate sulla ribalta, dunque pericolosamente vicine ai danzatori, erano utilizzate in grande quantità anche per ottenere quegli effetti speciali che il balletto ottocentesco richiedeva.
– Dunque fare la danzatrice era molto pericoloso…
E come! Un caso analogo era successo al Drury Lane di Londra nel 1844. Durante la rappresentazione del balletto La rivolta dell’Harem prende fuoco il lungo tutù della protagonista, la ventitreenne Clara Webster, uno dei più promettenti talenti inglesi. In pochi secondi la poveretta diventa una torcia umana. E poiché nel trambusto nessuno pensa di calare il sipario, gli spettatori assistono agghiacciati a questa terribile morte in diretta.
– Ma vista la pericolosità di quelle fiamme in scena, non c’erano delle norme di sicurezza?
Nel caso del Drury Lane di Londra dovevano esserci dei secchi antincendio pieni d’acqua. Ma come accade oggi quando sentiamo parlare di estintori non revisionati e non funzionanti, quei secchi erano vuoti.
– E nel caso della morte della Livry quasi vent’anni dopo?
Ai tempi della Livry le norme erano più rigide. Il tutù da indossare doveva essere sottoposto a un trattamento ignifugo. Solo che, fatto il trattamento, il tutù ingialliva e diventava rigido. Questo non piaceva alle ballerine. E infatti la maggior parte di loro si rifiutava di indossarlo. Nel caso della Livry lei aveva firmato una liberatoria per togliere qualsiasi responsabilità al teatro. Dopo questa tragedia le norme di sicurezza furono aumentate e fu imposto di tenere sempre delle coperte bagnate pronte per l’uso dietro le quinte. Per la cronaca la tomba della Livry è nel cimitero di Montmartre e una parte della cintura e un lembo di tessuto del tutù che indossava sono conservati in una teca del Museo dell’Opéra.
– Mi fai brevemente la storia dell’illuminazione teatrale?
Nel teatro greco e romano l’illuminazione era naturale e l’architettura degli edifici era studiata per sfruttare la luce del sole. Se gli spettacoli si protraevano oltre il tramonto si utilizzavano grossi bracieri. Nel Medioevo il teatro è soprattutto dramma sacro e l’illuminazione è quella di una normale celebrazione liturgica con candele, ceri, bracieri e fiaccole. Nel Rinascimento avviene la prima vera rivoluzione. Gli spettacoli sono messi in scena in ambienti dove pittori (spesso famosi) disegnano le scene e studiano la disposizione di bracieri, candele e lampade a olio. E, in più, nasce la luce colorata.
– Chi la inventa?
La inventa Leonardo da Vinci: è una lampada con al centro una cavità dove ci va il lume e intorno alla cavità c’è uno scomparto che viene riempito di acqua colorata. Più avanti, nel teatro barocco (ovvero nei saloni degli edifici di corte dove vengono allestiti gli spettacoli, e nei teatri veri e propri come l’Olimpico di Vicenza), aumentano le fonti luminose e la disposizione delle luci assume una forma fissa: lumi e candele vengono posizionati lungo il proscenio…
– Cos’è il proscenio?
È la parte anteriore del palcoscenico, quella più vicina al pubblico. Questi lumi e queste candele sono ovviamente schermati in modo che non disturbino gli spettatori e mandino la luce verso il centro del palcoscenico. Ci sono poi file di lumi su appositi sostegni laterali dietro le quinte e lampadari sopra il palcoscenico. In questo modo la luce arriva dal davanti, dai lati e dall’alto. Ma la grande rivoluzione, caro Paperino, è nell’Ottocento, con l’avvento dell’illuminazione a gas nelle vie delle grandi città. Il teatro ne approfitta e l’adotta subito.
– In che anno?
I primi due teatri ad adottare l’illuminazione a gas sono l’Opera House di Filadelfia nel 1816 e il Lyceum Theatre di Londra nel 1830. Poi, a metà Ottocento si diffonde in tutti i teatri. In Italia il primo ad adottarla è il Regio di Torino nel 1838.
– Cosa cambia con l’illuminazione a gas?
La disposizione delle fonti illuminanti rimane quella dei secoli precedenti ma c’è una grande novità: lavorando sul rubinetto del gas si può regolare l’intensità della luce. Sorgono però dei problemi: la combustione dei gas provoca fumi che ostacolano la visuale e, soprattutto agli inizi, sono pure tossici. Grazie al gas nasce il megalampadario centrale, quello sopra la platea, che successivamente sarà riconvertito ad elettricità. Utilizzando un sistema di tubazioni si riesce inoltre a convogliare tutte le valvole di regolazione delle vari luci in uno stesso posto (spesso vicino alla buca del suggeritore) e nascono così i primi banchi di controllo luci.
– Come arrivava il gas nei teatri?
Nello stesso modo con cui arrivava ai lampioni stradali. Ovvero attraverso tubi di ghisa o di piombo provenienti da un gasometro dove veniva raccolto il gas ottenuto dalla distillazione del carbon fossile.
– Quando comincia a essere usata l’elettricità nei teatri?
Il primo ad adottarla è l’Opèra di Parigi nel 1881. Nel 1883 viene istallata nei teatri di Londra, nel 1885 in quelli di New York (1885) e di lì a poco nei principali teatri italiani.
– Cosa cambia con l’elettricità?
Nascono gli effetti speciali. Con le luci elettriche si possono creare lampi, arcobaleni, la luce del sole, chiari di luna, nubi in movimento e un’infinità di altri effetti. Grazie ai reostati la regolazione dell’intensità luminosa diventa millimetrica: dalla massima intensità luminosa al buio totale la gamma delle gradazioni è infinita. Pensa che la luce, in certo teatro d’inizio Novecento (ma anche nella danza sperimentale e in alcuni ambiti musicali) diventerà persino un elemento primario dello spettacolo.
– Quali sono i balletti più importanti del 1800?
Cercherò di farti un breve excursus sulle pietre miliari del 1800. È del 1801 l’unico balletto composto da Beethoven, Le creature di Prometeo (prima assoluta a Vienna il 28 marzo) che gli viene commissionato da Salvatore Viganò. Passiamo al 1832: all’Opéra di Parigi va in scena il 12 marzo La Sylphide di Filippo Taglioni, il primo balletto per eccellenza del romanticismo coreografico. La protagonista, Maria Taglioni (figlia di Filippo) indossa quel tutù semitrasparente in mussola bianca che arriva quattro cinque centimetri sotto il ginocchio e che diventa l’immagine per eccellenza della ballerina ottocentesca. In un’altra cosa questo balletto fa scuola: le numerose compagne della protagonista, tutte silfidi, ovvero magici e alati spiriti femminili del bosco, appaiono più volte, nel loro bianco tutù, in balli di gruppo. Questo fa della Sylphide il prototipo del cosiddetto ballet blanc. Lo stesso accadrà con i bianchi balli di gruppo delle Villi in Giselle nove anni dopo, con le danze delle Peri nell’orientaleggiante La Péri undici anni dopo, con le danze delle fanciulle-farfalle in Le papillon (1860), con quelle delle Bayadère nella Bayadère (1877), con quelle delle fanciulle-cigno nel Lago dei cigni (1895) e in altri balletti dell’Ottocento.
Terza pietra miliare (considerato il capolavoro assoluto del balletto romantico) è Giselle. Va in scena il 28 giugno 1841 all’Opéra di Parigi che diventa in questo periodo la capitale mondiale della danza. Giselle segna tra l’altro il successo del lavoro di squadra: musica di Adolphe Adam, coreografia di Jean Coralli e Jules Perrot, tutti e tre pezzi da novanta, e libretto dello scrittore Théophile Gautier (l’autore di Capitan Fracassa) che rielabora una leggenda popolare tedesca trascritta dal poeta Heinrich Heine. Ma non è tutto. Senti come nasce Giselle. Gautier, strainnamorato di Carlotta Grisi (che però gli preferisce Perrot, di cui è compagna, e Lucien Petipa che in questa Giselle le è a fianco nel ruolo di Albrecht) trova nella leggenda riportata da Heine il soggetto perfetto per la Grisi che tra l’altro è sua cognata. Gautier era infatti il marito di Ernesta Grisi, sorella di Carlotta. La leggenda è quella delle fanciulle che, morte per amore alla vigilia delle nozze, diventano Villi, ossia bianchi fantasmi che vagano nei boschi al chiaro di luna. Gautier parte in quarta e mette nel libretto tutto il suo amore impossibile e non corrisposto, in pratica ribalta la storia. Adam. il geniale compositore a cui viene commissionata la musica e umilmente si mette al servizio delle storia, fa il resto. Come vedi, Paperino, dietro ai capolavori, oltre al lavoro di squadra, ci sono motivazioni forti e qualcuno della squadra che rinuncia a qualcosa. Una curiosità su Giselle. Alla prima parigina che è un autentico trionfo c’è il ventottenne critico musicale di un giornale di Dresda che conclude la sua corrispondenza dicendo che “un solo balletto all’Opéra di Parigi ci è bastato per gettarci nella morte da danza”. Quel critico è il sommo Richard Wagner. Come vedi i grandi artisti, in quanto tali, sono pessimi giudici delle opere altrui.
Carlotta Grisi. Al centro con Perrot in Esmeralda e in Polka, A destra con Lucien Petipa.
Oltre che in Giselle Gautier sublima il suo amore impossibile nel libretto della Péri che va in scena all’Opéra di Parigi il 17 luglio 1843, protagonista una Grisi che nella scena famosa in cui si getta dall’alto nelle braccia di Lucien Petipa quasi rischia a vita: alla prima e anche nelle repliche successive a Parigi e nelle principali capitali europee. Al punto che questa acrobazia diventa la principale attrattiva di un balletto che (se anche non è una pietra miliare) artisticamente è quasi ai livelli di Giselle. Un ottocentesco tenente Colombo sarebbe potuto risalire a chissà quale diabolico piano omicida nel caso di un incidente mortale. Invece, buon per la Grisi, a trentaquattro anni, nel 1853, si ritira dalla carriera e si stabilisce in Svizzera dove muore ottantenne il 20 maggio 1899. Un’altra pietra miliare è invece il Pas de quatre di Jules Perrot su musica di Cesare Pugni andato in scena all’Her Majesty’s Theatre di Londra il 12 luglio…
– Spesso le prime erano in giugno e in luglio…
Marie Taglioni, Fanny Cerrito, Lucille Grahn e Carlotta Grisi
Certo Paperino, i teatri non erano riscaldati come adesso e dunque in primavera e in estate era tutto più semplice. Questo Pas de quatre, quattro assoli che evidenziano le peculiarità tecniche di ciascuna ballerina e un passo a quattro finale, è un autentico evento non solo ballettistico: sicuramente possiede anche una forte valenza mediatica. Sono infatti in scena, insieme, le quattro maggiori ballerine di quel momento al mondo. Manca Fanny Elssler, ma essendoci la sua eterna rivale Marie Taglioni, la Elssler non può esserci: o c’è una o c’è l’altra. Accanto alla quarantunenne italo-svedese Taglioni, la ventottenne napoletana Fanny Cerrito, la ventiseienne danese Lucille Grahn (anche lei rivale della Elssler) e la ventiseienne cremonese-istriana Carlotta Grisi. Caro il mio Paperino, ci risiamo: è la storia di sempre dei talenti italiani sparsi nel mondo.
La grande esclusa Fanny Elssler, le quattro protagoniste di Pas de quatre e due riprese del celebre balletto
Andiamo avanti e torniamo all’Opéra di Parigi. È il 23 gennaio 1856 (questa volta siamo insolitamente in inverno) e va in scena Le corsaire di Joseph Mazilier su musica di Adolphe Adam, balletto ispirato all’omonimo poemetto di George Byron del 1814. Anche se questo balletto è noto soprattutto per il grand pas de deux (tra l’altro su musica di Riccardo Drigo aggiunta nell’edizione russa di Petipa del 1899) eseguito nei gala, consideriamo pur sempre una piccola pietra miliare. Anche per gli influssi sul musical cinematografico: pensiamo a Gene Kelly che nel Pirata di Vincente Minnelli del 1947 sulle frizzanti musiche di Cole Porter.
Gran pietra miliare è invece Don Chisciotte di Marius Petipa su musica di Ludwig Minkus andato in scena al teatro Bolscioi di Mosca il 14 dicembre 1869 con un cast (questa è una novità nel panorama internazionale) quasi tutto russo. Ma ci sono altre due novità. La prima è il Bolscioi che entra a far parte dei teatri europei che contano. La seconda è la scelta della data che, nella fredda Russia dove i teatri sanno ben fronteggiare il freddo, conferisce all’evento quel sapore natalizio tuttora legato al balletto. Torniamo all’Opéra di Parigi. Prima assoluta, il 25 maggio 1870, di Coppelia di Arthur Saint-Léon su musica di Leo Delibes, una grandissima pietra miliare. Purtroppo con una triste curiosità: nei panni della protagonista c’è la sedicenne milanese (ancora talenti italiani) Giuseppina Bozzacchi. Il suo è un autentico trionfo e diventa subito la nuova stella dell’Opéra. Appena sei mesi dopo, mentre l’esercito prussiano assedia Parigi, la Bozzacchi muore di vaiolo proprio nel giorno in cui compie diciassette anni, il 23 novembre 1870. E non è tutto: neanche tre mesi prima, il 2 settembre 1870 era morto quarantanovenne il coreografo Saint-Léon. Poi, migliaia e migliaia di repliche di Coppelia (che Vittoria Ottolenghi definisce la “grande commedia del balletto” come Giselle ne è la “grande tragedia”) hanno fortunatamente sfatato quell’iniziale fama di “portasfiga” che l’accomunava a Macbeth. E adesso Paperino arriviamo alla triade ciaikowskiana di fine Ottocento, sicuramente i tre balletti più famosi della storia della danza, saccheggiati a destra e a manca, a partire dalle melodie spesso usate nelle suonerie dei cellulari e in spot pubblicitari dal sapore natalizio. Sono La bella addormentata nel bosco (1890), Lo schiaccianoci (1892) e Il lago dei cigni (1895), tutti e tre andati in scena in prima assoluta al Teatro Marijnskij di Pietroburgo che sul finire dell’Ottocento diventa così la capitale europea della danza, tutti e tre andati in scena tra dicembre e gennaio. E tutti e tre (ritorna il discorso dei nostri talenti all’estero) con un’italiana nel ruolo principale: la ventitreenne milanese Carlotta Brianza nella Bella addormentata, Antonietta Dell’Era nello Schiaccianoci, e la trentaduenne milanese Pierina Legnani (quella dei trentadue celeberrimi fouettés) nel Lago dei cigni…
– Spiegami per favore la storia di questi trentadue celeberrimi…
… Fouettés, ovvero serie di giri, a mo’ di trottola, sulla gamba che sostiene il peso mentre l’altra, con movimenti che sembrano frustate, dà la spinta per i giri. Ebbene la Legnani che due anni prima, in Cenerentola sempre a Pietroburgo, ne aveva fatti trentadue, ripete la performance nella coda del pas de deux del Cigno nero e manda il pubblico in visibilio. Pietroburgo diventa in questi anni la capitale mondiale della danza. E la gogoliana Prospettiva Nevskij dell’omonimo racconto del 1835 diventa, insieme al Marijnskij, la cosa – per dirla alla Gogol – che più brilla in città. Di questa grandeur della danza che ha per protagonisti Diaghilev, Nijinskij, la Pavlova, Fokine, Stravinskij e altri pilastri che qui, a Pietroburgo, muovono i primi passi sul finire dell’Ottocento per poi rivoluzionare il Novecento c’è un’eco nella Prospettiva Nevskij di Franco Battiato.
Seduti sui gradini di una chiesa
aspettavamo che finisse messa e uscissero le donne
poi guardavamo con le facce assenti
la grazia innaturale di Nijinsky.
E poi di lui si innamorò perdutamente il suo impresario
e dei balletti russi.
L’inverno con la mia generazione
le donne curve sui telai vicine alle finestre
un giorno sulla prospettiva Nevskij
per caso vi incontrai Igor Stravinsky.